L’art. 2555 c.c. definisce l’azienda come ”il complesso dei beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Essa si configura, pertanto, come strumento elettivo per lo svolgimento di quell’attività economica organizzata rivolta alla produzione e allo scambio di beni o servizi cui l’art. 2082 c.c. connette la qualifica di imprenditore. L’azienda, quindi, costituisce il risvolto “oggettivo” di uno dei requisiti dell’acquisto della qualità di imprenditore, ed, in quanto tale, può essere concepito come distinto dalla persona di quest’ultimo e oggetto di un’autonoma circolazione. In ragione, quindi, del suo essere – anche – res, ovvero bene suscettibile di “spersonalizzazione”, l’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura: può essere venduta, conferita in società, donata, e sulla stessa possono altresì costituirsi diritti reali o personali di godimento a favore di terzi. Speculare a quest’ultimo profilo utilitaristico dell’azienda è l’istituto dell’affitto d’azienda disciplinato direttamente dall’art. 2562 c.c. dal cui tenore letterale è agevole desumerne i tratti salienti: contratto con il quale il concedente trasferisce all’affittuario il diritto di godimento dell’azienda a fronte del pagamento di un canone periodico e per un periodo di tempo determinato. L’affitto può riguardare l’intera azienda o più aziende possedute dallo stesso imprenditore, ovvero un solo ramo di attività.
La contiguità del suddetto schema contrattuale a quello tipico della locazione – in entrambe le fattispecie, infatti, si consuma la medesima dinamica corrispettiva tra soggetto concedente l’immobile e soggetto fruente lo stesso a fronte della corresponsione di un canone – potrebbe lasciar adito ad improprie assimilazioni e/o sovrapposizioni; tuttavia la strumentalità propria del “bene azienda”, apprezzabile sul piano della correlazione all’esercizio dell’impresa, impone un netto distinguo tra affitto d’azienda e locazione di immobili seppur ad uso commerciale. A perimetrare i fines iuris tra le due fattispecie, soccorre un consolidato orientamento giurisprudenziale che, sul presupposto per cui nel contratto d’affitto d’azienda quest’ultima non rileva quale oggetto esclusivo e specifico della stipula, né come bene nella sua definita individuazione giuridica, bensì come uno degli elementi costitutivi (complesso di beni mobili ed immobili) al servizio dell’esercizio dell’attività d’impresa, ha escluso l’applicabilità della disciplina vincolistica relativa alla durata minima della locazione in caso di affitto d’azienda con conseguente inapplicabilità della disciplina processuale sommaria di cui agli artt. 657 e ss. c.p.c. (Cass. 15 Ottobre 2002, n. 14647; Cass. 17 Aprile 1996, n. 3267, Cass. 4 Febbraio 1987, n. 1069; Cass. 11 Novembre 1986, n. 6606).
Trattasi di un principio che pare essere oggetto di indiscussa e pacifica acquisizione al punto da poter essere ritenuto una consapevole presa d’atto delle caratteristiche strutturali e teleologiche che pertengono al “bene” azienda.
Tuttavia, non è sempre scevra di difficoltà la distinzione tra le fattispecie; sul punto si è pronunciato il Giudice di Legittimità che, in un’ottica chiarificatrice, ha precisato che ai fini della qualificazione di un contratto come affitto d’azienda anziché come locazione di immobile ad uso commerciale, la circostanza che la licenza d’esercizio sia stata rilasciata a soggetto diverso dall’effettivo esercente può (senza che a ciò sia d’ostacolo il carattere personale e la non cedibilità della licenza stessa) essere valorizzata dal Giudice di merito come sicuro sintomo della preesistenza di un’azienda, quale complesso di beni organizzati ai fini produttivi, senza che, inoltre, la configurabilità di un contratto di affitto d’azienda sia condizionata dalla effettiva produttività di tali beni al momento della conclusione del contratto, essendone sufficiente la potenziale attitudine produttiva, quale prevista e considerata dalle parti contraenti, attitudine da valutarsi peraltro anche in relazione al luogo o alle particolarità del contesto ove si esercita l’impresa, e perciò non esclusa dalla circostanza che ai beni e servizi da essi offerti possa accedere solo una clientela determinata, costituendo per contro tale circostanza causa certa di produttività dell’attività commerciale (Cassazione civile, sez. III, 6 maggio 1997, n. 3950).
Una volta chiariti preliminarmente i tratti salienti del contratto d’affitto d’azienda nonché la sua incontrovertibile ragion d’essere all’interno delle vicende circolatorie del complesso aziendale, è possibile procedere nel senso di un’analisi più approfondita delle dinamiche che possono consumarsi all’interno della suddetta fattispecie specie se poste in relazione al diritto di proprietà del concedente. Ebbene, la necessità di attivare delle misure strumentalmente volte al suo sostanziale ripristino sia nell’ipotesi normale di scadenza convenzionalmente determinata, sia nell’ipotesi patologica di inadempimento ab latere inquilino pone problemi di natura processuale di non poco conto.
In altri termini, a fronte dell’inadempimento contrattuale dell’affittuario, quale misura si presta più idoneamente a tutelare il concedente, o meglio, il suo diritto a rientrare nel possesso del bene di cui è titolare?
Sulla scorta di quanto supra riferito, si ritiene esclusa l’applicabilità all’affitto d’azienda della disciplina processuale sommaria tipica della locazione di immobile (sfratto per morosità, sfratto e licenza per finita locazione), ragione per la quale, si contendono il terreno due strumenti – il sequestro giudiziario e il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. – la cui efficacia satisfattiva delle esigenze per cui sono stati all’uopo concepiti è stata valutata dalla giurisprudenza di legittimità se idonea o meno ad attagliarsi alla problematica ad oggetto.
Trattasi, infatti, di una scelta né agevole né scontata ma pilotata dalle peculiari caratteristiche del bene azienda che valgono a contraddistinguerla da qualsiasi altro bene suscettibile di circolazione. Sul punto, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere 20 Ottobre 2011 ha statuito il principio alla cui stregua “il rimedio del ricorso all’art. 700 c.p.c. per ottenere il rilascio dell’azienda concessa in affitto appare quello più funzionale ad assicurare la restituzione dell’azienda al proprietario nel più breve tempo possibile, al fine di consentire la ripresa di una piena funzionalità ed operatività, obiettivi, questi, che non potrebbero essere assicurati da un provvedimento di sequestro giudiziario, di certo più idoneo alla conservazione del bene per impedirne deterioramenti, alterazione o la sottrazione”. Da siffatta statuizione sembrano intravedersi i tratti di una conceptio di azienda in cui la “prognosi dinamica” del correlato esercizio di impresa viene, per così dire, enfatizzata con l’ovvia conseguenza che, sul versante dei rimedi, la misura cautelare atipica di cui all’art. 700 c.p.c. viene ritenuta maggiormente idonea al perseguimento di un risultato che va ben oltre la presa in considerazione del bene in re ipsa a cui mira, in sostanza, il sequestro giudiziario.
Più mitigate, invece, le risultanze cui è approdato il Tribunale di Firenze, 20 Gennaio 2010 nella misura in cui riterrebbe che “l’esperienza giurisprudenziale insegna che nella crisi del rapporto contrattuale di affitto d’azienda possono teoricamente trovare spazio tanto la cautela tipica del sequestro giudiziario d’azienda, quanto la cautela atipica della anticipazione degli effetti restitutori del bene concesso. Le due soluzioni tendono, infatti, a garantire differenti situazioni, atteso che la riacquisizione del compendio aziendale offre al concedente utilità ulteriori e diverse rispetto alla mera custodia o alla gestione temporanea dell’azienda. E pertanto può ritenersi che la tutela atipica per ottenere la restituzione dell’azienda può essere in astratto ritenuta ammissibile. Quanto al periculum in mora lo stesso può risultare dalla consistenza dell’inadempimento e dalle modalità con cui lo stesso si è manifestato e renda indifferibile la restituzione dell’azienda al concedente,il quale in attesa della definizione del giudizio di merito verrebbe altrimenti a rischiare di perdere le potenzialità dell’azienda stessa nel caso in cui il dissesto economico dell’affittuaria conducesse alla chiusura della medesima o comunque ad una forte contrazione dell’attività”.
La suddetta pronuncia, nella misura in cui statuisce l’astratta ammissibilità del rimedio cautelare atipico e ne ancora il concreto esperimento ad un’attenta analisi dell’incidenza dell’inadempimento sulle sorti dell’attività d’impresa, palesa tutti i segni di una visione totalizzante del bene azienda nel quale risvolto statico – mera conservazione del complesso aziendale – e dinamico – esercizio, per il suo tramite, dell’impresa – sono considerati elementi ineludibilmente correlati e per questo insuscettibili di considerazione a se stante.
Le considerazioni sin qui esposte consentono di ritenere la misura cautelare atipica di cui all’art. 700 c.p.c. il più idoneo rimedio risolutorio della vexata questio dedotta in oggetto di disquisizione: a differenza del sequestro giudiziario, mezzo risolutorio di una patologia contrattuale che riflette in se, sic et simpliciter, un’idea di mera intangibilità del diritto di proprietà, il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. palesa tutta la sua attitudine ad apprestare tutela più capillare nella misura in cui tiene conto della circostanza per cui il concedente l’azienda non è solo il titolare di un diritto di proprietà tout court, bensì di una situazione giuridica di potestas declinata in virtù dell’esercizio di un’attività di impresa.
Avv. Carlo Congedo